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La sorgente Ungherese
di Cornelius Castoriadis

«Negli anni a venire tutte le questioni che contano si riassumeranno in questa: siete a favore o contro il programma degli operai ungheresi?»1. Devo scusarmi di citare me stesso. Ma, dopo vent'anni, mi mantengo a queste poche linee - e con più fermezza, più ostinazione, forse, dell'epoca in cui le scrivevo. E non è ciò che è trascorso - o piuttosto ciò che non è trascorso - nella «sfera delle idee» dopo di esse, non è il silenzio che circonda la Rivoluzione ungherese del 1956 praticamente in tutta la letteratura di «sinistra», della «nuova sinistra», e dell'«estrema sinistra» che potrà modificare il mio atteggiamento. In realtà, questo silenzio è l'indizio molto sinistro sia della qualità di questa letteratura sia delle motivazioni che stanno al fondo di coloro i quali si considerano «rivoluzionari». E' appena esagerato dire che questo silenzio è uno dei sintomi della dominazione delle idee reazionarie nel mondo contemporaneo. Significa che la burocrazia staliniana continua, anche se in maniera meno diretta, a decidere gli argomenti autorizzati e i vietati. (Oggi le idee reazionarie pertinenti sono naturalmente quelle della burocrazia - e non quelle di Ronald Reagan. D'altra parte vi sono pochi dubbi che Reagan e Breznev sarebbero d'accordo nel giudizio sull'Ungheria).

Va da sé che non si potrebbe valutare con l'aiuto di questo solo criterio l'impatto e l'influenza reale della Rivoluzione ungherese. Di fronte alla repressione ideologica del ricordo degli avvenimenti del 1956 (e qui conviene accettare ugualmente il termine «repressione» nel senso psicoanalitico che in inglese gli è proprio, quello di «rimozione»), è certo che il loro significato non ha smesso di fare la sua strada. A prescindere dai loro probabili effetti sotterranei nei paesi dell'Est e nella Russia stessa, non vi sono dubbi che la grande diffusione delle idee di autogestione nel corso degli ultimi due decenni deve essere messo in relazione con le rivendicazioni esemplari dei consigli operai ungheresi. E ancora, non è evidentemente per un caso se la maggior parte delle organizzazioni che propongono l'«autogestione» (in particolare i partiti e i sindacati riformisti, ma non sono i soli) mantengono il silenzio sull'Ungheria e preferiscono riferirsi, per esempio, al «modello» più rispettabile (e vuoto di contenuto) della Jugoslavia. Separando così le idee di autogestione dal potere dei consigli operai e dalla distruzione dell'ordine esistente, possono presentare l'autogestione come un elemento che si potrebbe semplicemente aggiungere, senza troppe lacrime, al sistema attuale. Non è men vero che la propagazione di queste idee mina le fondamenta della dominazione burocratica; e niente permette di affermare che i burocrati riformisti riusciranno a farne un semplice ornamento dell'ordine stabilito.

Ho parlato del silenzio che circonda da molti anni la Rivoluzione ungherese. La bibliografia che riguarda gli avvenimenti del 1956 in Ungheria attualmente conta diverse migliaia di volumi. Ma si tratta per massima parte di scritti di specialisti destinati a specialisti; ciò che lì si manifesta, è l'enorme espansione del mercato dell'insegnamento, della scrittura e delle edizioni piuttosto che il vero riconoscimento del significato rivoluzionario del 1956. Nel corso dei decenni che seguirono il 1789 o il 1917, vi fu un apparire di testi «universitari» o «scientifici» sulle rivoluzioni francese e russa. Ma si assistette a sua volta ad una straordinaria apparizione di testi politici. Vi si scriveva infine di prendere partito: si era pro o contro. Quelli che erano a favore vedevano negli avvenimenti di Francia o di Russia un esempio, invitavano i loro compatrioti ad agire come il popolo di Parigi o gli operai di Pietrogrado, e cercavano di spiegare e di difendere l'azione dei rivoluzionari contro gli ideologi reazionari del loro tempo.


Certo, le Rivoluzioni francese e russa sono state «vittoriose» (seppur per breve tempo), e la Rivoluzione ungherese è stata «vinta» (benché questo difetto non sia stato dovuto che all'invasione del paese dall'armata più potente del mondo). Ma nel 1871, anche la Comune di Parigi è stata vinta, e questo non ha impedito ai rivoluzionari, durante il mezzo secolo seguente, ed ancor oggi di discutere le lezioni. Che l'armata russa abbia schiacciato la Rivoluzione ungherese spiega forse la sua minore risonanza negli strati popolari, ma non spiega il silenzio sistematico dei «rivoluzionari» e degli «intellettuali di sinistra». O forse le idee cessano di essere vere e valide allorquando i carri russi si mettono a sparare su di esse? Le cose, però, diventano più chiare quando si considera il contributo, il senso e le implicazioni della Rivoluzione ungherese. Si può allora capire questo silenzio per ciò che è: una conseguenza diretta del carattere radicale di questa rivoluzione, e un tentativo di abolirne il significato e il ricordo.
La società moderna è una società a capitalismo burocratico. E' in Russia, in Cina e negli altri paesi che si spacciano per «socialisti» che si realizza la forma più pura, la più estrema - la forma totale - del capitalismo burocratico. La Rivoluzione ungherese del 1956 è stata la prima e, fino ad ora, la sola rivoluzione totale contro il capitalismo burocratico - la prima a prefigurare il contenuto e l'orientamento delle future rivoluzioni in Russia, in Cina e altrove. Per dozzine di anni, i «marxisti», gli «intellettuali di sinistra», i militanti, ecc. hanno dibattuto - e lo fanno ancora - sul carattere corretto o no della politica staliniana, delle cause e sulla data esatta del «Termidoro» russo, sul grado di degenerazione della Rivoluzione russa, sulla natura sociale dei regimi di Russia e d'Europa orientale (Stati operai degenerati? Stati non operai degenerati? Stati socialisti con deformazioni capitalistiche? Stati capitalisti con deformazioni socialistiche?). Gli operai e la gioventù ungherese hanno preso le armi e con la loro pratica hanno messo un punto finale a queste discussioni. Con i loro atti essi hanno dimostrato che la differenza tra gli operai e lo «Stato operaio» è la differenza tra la vita e la morte; e che essi preferivano morire combattendo lo «Stato operaio» piuttosto che vivere come operai sotto lo «Stato operaio».
Allo stesso modo del capitalismo burocratico diviso dell'Ovest, il capitalismo burocratico totale dell'Est è pieno di contraddizioni e lacerato da un conflitto sociale permanente. Queste contraddizioni, questo conflitto, prendono periodicamente una forma acuta, e il sistema va verso una crisi aperta. O la pressione della popolazione sfruttata e oppressa può giungere fino all'esplosione. O, prima che avvenga ciò, la burocrazia regnante può tentare qualche «riforma». Le sfere in cui le contraddizioni e i conflitti sono più evidenti e più pressanti sono naturalmente quelle dell'«economia» e della «politica». Caos economico quasi permanente consustanziale alla «pianificazione» burocratica (e che, più profondamente, affonda le sue radici nel conflitto che la produzione conosce senza tregua2) e repressione politica onnipresente, appaiono come gli aspetti più intollerabili del capitalismo burocratico totale. Aspetti, certo, fortemente indipendenti e mutuamente condizionati - e che sono entrambi il necessario risultato del sistema. Di fatto, per quanto fantastico possa sembrare, il complesso della «sinistra» internazionale non sembra vedere in queste cose se non delle tare secondarie o dei difetti rimovibili. Cosicché le «riforme» che li rimuovessero del tutto, preservando la sostanza del sistema (nuova soluzione della quadratura del cerchio), sarebbero favorevolmente accolte all'Ovest dai candidati-burocrati e dai loro ideologi aperti o mascherati («socialisti»; «comunisti dissidenti» e, oggi, anche «ortodossi», in Italia, in Francia, ecc.; trotzkisti; giornalisti «progressisti»; compagni di strada; intellettuali di diverso tipo, dai filosofi esistenzialisti di ieri, come Sartre e l'équipe di Temps Modernes, agli «economisti radicali» d'oggi, come Nuti, ecc.). Non è difficile capire perché e come questi strani commensali sono stati più o meno unanimi nel loro sostegno a Gomulka nel 1956-57 e nella loro «opposizione» all'invasione della Cecoslovacchia nel 1958, mentre per quel che riguarda la rivoluzione ungherese, si sono abbandonati a delle vergognose calunnie (i «comunisti»), hanno approvato l'invasione finale (Sartre), hanno guardato dall'alto le azioni «spasmodiche», «elementari», «spontanee» dei lavoratori ungheresi (Mandel), o si sono rifugiati nel silenzio più in fretta che hanno potuto. Nel 1956, il popolo polacco non ha preso le armi. Malgrado il loro sviluppo e il loro fermento, i consigli operai non hanno mai messo in questione in modo esplicito la struttura del potere esistente. Il partito comunista è essenzialmente riuscito - al prezzo di una piccola purga nei suoi ranghi e di qualche spostamento di personale - a tenere in mano la situazione per tutto il periodo critico, e a soffocare così, alla fine, il movimento di massa3. Le cose sono state ancora più chiare nella Cecoslovacchia del 1968 - e le proteste della «sinistra» ancora più numerose. Il fatto è che, in questo caso, vedete, non c'era alcun pericolo: nei fatti, nessun segno di un'attività autonoma delle masse. La nuova direzione del P.C. cercava di introdurre qualche riforma «democratica» e un certo grado di decentramento dell'economia. Non c'è bisogno di dire che la popolazione non poteva che essere favorevole a questi provvedimenti. Una riforma venuta dall'alto, e col sostegno del popolo, che sogno meraviglioso per i «rivoluzionari» d'oggigiorno! Come diceva Mandel, ciò aveva «permesso a milioni di proletari di identificarsi di nuovo con lo Stato operaio».

In tali circostanze, è evidentemente lecito biasimare i carri armati russi.

Ma in Ungheria, il movimento delle masse è stato così potente e radicale che in qualche giorno ha letteralmente polverizzato e il P.C. e tutto l'intero apparato dello Stato. Neanche una parvenza di «dualità di potere»: tutto ciò che sussisteva come potere era nelle mani della gioventù armata e dei consigli operai. Il «Programma»4 dei consigli operai era assolutamente incompatibile con la conservazione della struttura burocratica della società. Esso imponeva l'autogestione delle imprese, l'abolizione delle norme di lavoro, la drastica riduzione delle ineguaglianze dei redditi, la direzione sugli aspetti generali della pianificazione, il controllo della composizione del governo, e un nuovo orientamento della politica estera. E tutto ciò fu convenuto e chiaramente formulato nello spazio di qualche giorno. In questo contesto, sarebbe risibilmente fuori luogo rilevare che tale punto di queste rivendicazioni era «oscuro» e qual tal'altro «insufficiente». Se la rivoluzione non fosse stata schiacciata dagli assassini del Cremlino, il suo sviluppo avrebbe costretto ai «chiarimenti» ed ai «perfezionamenti» necessari: i consigli e il popolo avrebbero fatto o no la prova che essi potevano trovare in loro stessi la capacità e la forza di creare un nuova istituzione della società.

Nello stesso tempo, la Rivoluzione liberava, scatenava, tutte le forze e tutte le tendenze della nazione ungherese. La libertà di parola e di organizzazione per tutti, quali che fossero le opinioni politiche particolari di ciascuno, è stata immediatamente considerata come inevitabile. Ed era ugualmente inevitabile che i diversi rappresentanti dell'«umanità progressista» non potessero considerarlo che intollerabile. Ai loro occhi, la libertà di parola e d'organizzazione era il segno del carattere «impuro», «eterogeneo», «confuso» della Rivoluzione ungherese - quando cinicamente non vi hanno visto la «prova» che la Rivoluzione non era che una «cospirazione imperialista». Ci si potrebbe domandare perché l'imperialismo capitalista possa il più delle volte sopportare la libertà di parola, e perché l'imperialismo «socialista» non la possa tollerare un solo istante. Ma lasciamo da parte il problema della libertà in quanto tale. Qual é il significato storico di questa straordinaria proliferazione di partiti, di organizzazioni, ecc., nello spazio di pochi giorni? Precisamente questo: aveva luogo un'autentica Rivoluzione. Tale proliferazione, nello stesso tempo in cui si esprimono in tutte le loro varietà le idee, che vi corrispondono, è, in verità, il marchio distintivo della rivoluzione. Se noi riconosciamo negli avvenimenti del 1956 in Ungheria una rivoluzione, ciò non è a scapito, ma proprio a causa di questa manifestazione senza limiti di tendenze politiche, di questo carattere «caotico» (per i burocrati e i filistei) dell'esplosione sociale. E' un luogo comune - o piuttosto, dovrebbe esserlo - dire che una vera rivoluzione è sempre nazionale: tutti i settori, tutti gli strati della nazione abbandonano la loro passività e la loro sottomissione conformista all'ordine antico; tutti si sforzano di prendere parte attiva alla sua distruzione e alla formazione di un ordine nuovo. La società, fino allora oppressa, s'appropria collettivamente della possibilità di esprimersi, ognuno si alza ed annuncia ad alta voce le sue idee e le sue rivendicazioni. (Che noi si possa disapprovarne alcune e affermarlo ad alta voce è una questione totalmente diversa). E' ciò che è accaduto dopo il 1789, durante la Rivoluzione francese, e dopo il febbraio 1917, durante la Rivoluzione russa. (E' molto probabile che i critici della Rivoluzione ungherese avrebbero ugualmente condannato sotto pretesto d'«impurità», di «confusione», ecc, il pasticcio molto sospetto, intollerabile, suscitato da queste due altre rivoluzioni). La rivoluzione è questo stato di surriscaldamento e di fusione della società che accompagna la mobilitazione generale di tutte le categorie e di tutti gli strati e la demolizione di tutte le barriere stabilite. E' questo aspetto che rende comprensibile la liberazione e la straordinaria moltiplicazione del potenziale creativo della società nei periodi rivoluzionari, la rottura dei cicli ripetitivi della vita sociale - e l'apertura improvvisa della storia.

A scapito della sua breve vita, la Rivoluzione ungherese ha posto in linea di massima delle forme di organizzazione e dei significati sociali che rappresentano una creazione istituzionale socio-storica. la sorgente di questa creazione era l'attività del popolo ungherese: intellettuali, studenti, operai. Piuttosto di non contribuirvi del tutto, «teorici» e «politici», in quanto tali, continuarono ad apportare al popolo frodi e mistificazioni. Certo, gli intellettuali giocarono un ruolo positivo importante, giacché, molti mesi prima dell'esplosione finale, iniziarono (nel circolo Petðfi e altrove) a demolire le assurdità «politiche», «ideologiche» e «teoriche» che permettevano alla burocrazia staliniana di presentare la propria dittatura come una «democrazia popolare», come il «socialismo». Se essi giocarono questo ruolo, ciò avvenne non «portando al popolo» una nuova «verità» già pronta, bensì denunciando coraggiosamente le vecchie menzogne per quelle che erano. Nel corso della sua attività autonoma, e a favore di quella, il popolo creò delle nuove verità positive. Le chiamo positive poiché s'incarnarono in azioni e in forme d'organizzazione destinate non solo a lottare contro l'oppressione e lo sfruttamento burocratico, ma anche e soprattutto a servire con nuove forme d'organizzazione la vita collettiva sulla base di nuovi principi. Questi principi causano una rottura radicale con le strutture sociali stabilite (all'Est come all'Ovest), e, una volta esplicitate, svuotano di senso la «teoria» e la «filosofia» politica ereditate. Ciò, a sua volta, sovverte la relazione tradizionale tra «teoria» e «pratica», così come tra «teorici» e semplice gente. Nella Rivoluzione ungherese - come in altri esempi storici anteriori - troviamo un nuovo punto di partenza, una nuova sorgente, che ci costringe a riflettere di nuovo sul problema della politica - vale a dire dell'istituzione totale della società - nel mondo moderno, e ci fornisce allo stesso tempo taluni strumenti di questa riflessione. Qui, forse si udranno delle voci discordi, e delle proteste contro lo «spontaneismo», perfino contro la «demagogia oscurantista». Gettiamo uno sguardo, prima di rispondere, ai contributi di certi illustri politici e teorici prima e durante gli avvenimenti del 1956. Consideriamo per esempio Gyorgy Lukàcs. Ecco certamente uno dei rari teorici marxisti veramente creatori che siano apparsi dopo Marx. Ebbene che ha fatto costui? Dal 1924 (circa) al 1956, egli ha coperto, nel dominio ideologico, Stalin e lo stalinismo, i processi di Mosca, il Gulag, il «realismo socialista» e ciò che è avvenuto in Ungheria dopo il 1945; egli ha applicato le consegne successive di Zinoviev, Bukharin, Zdanov, Révai, ecc., e lo ha fatto in piena coscienza di causa - poiché conosceva altrettanto bene i fatti e il marxismo, «la concezione più rivoluzionaria che la storia abbia mai prodotto»5. Quando ha osato scorgere la luce? Quando le masse sono spontaneamente esplose contro le implicazioni dei suoi insegnamenti teorici. Avendo passato la vita a giurare sulla List der Vernunft - astuzia della ragione - , è diventato l'estrema personificazione della Unlist der Vernunft - la cecità della semplice «ragione».

Prendiamo ora il caso di Imre Nagy, il «politico». Qual è stato il suo aiuto, che cosa ne ha fatto della sua abilità «politica» contro le perfide menzogne della burocrazia russa? Ha trovato un solo istante in sé stesso la chiarezza di dire e la fermezza di proclamare: «Qualunque cosa accada, non crediate mai ai Russi - e so io di che cosa parlo»? No. Ha annaspato; ha tentato di chiedere l'aiuto... delle Nazioni Unite! Là dove si stava facendo la storia, il dramma sanguinoso del potere era là, in persona: carri armati e cannoni erano di fronte alle mani e ai petti nudi di milioni di persone. E Nagy, l'«uomo di Stato», il Realpolitiker, non sapeva pensare che alle Nazioni Unite, questo sinistro pagliaccio dove i banditi di Mosca e di Washington, protetti dai loro secondi e terzi coltelli, si aggrediscono vicendevolmente nei loro discorsi pubblici e si mettono d'accordo sui loro sporchi trucchi nei corridoi.

Tale fu la produzione dei professionisti della teoria e della politica, razza non spontanea, cosciente, sapiente e altamente qualificata. I non professionisti, loro, produssero una rivoluzione radicale - non prevista, non preparata, non organizzata da chicchessia e, dunque, «spontanea», come tutte le rivoluzioni della storia.

Il popolo ungherese non ha agito «spontaneamente» nel senso in cui un neonato piange «spontaneamente» quando sta male. Esso ha agito a partire dalla sua esperienza sociale e storica, e ne ha fatto qualcosa. Quando chi si acconcia del titolo di «teorico» o di «rivoluzionario» guarda dall'alto ciò che chiama «spontaneità», ecco il postulato nascosto che ha in testa: impossibile che questa canaglia possa mai imparare la minima cosa sulla propria vita, trarre qualche conclusione sensata quale che sia, passare da «due e due» a «quattro» - impossibile, soprattutto, che avanzi delle nuove idee e cerchi proprie soluzioni ai propri problemi. Inutile sottolineare l'essenziale identità di questo postulato con i dogmi fondamentali che riguardano l'uomo e la società che sono da millenni quelli delle classi dirigenti.
Una lunga parentesi mi sembra qui necessaria. Non si può che essere sorpresi dal fatto che gli intellettuali «marxisti» e «gauchiste» si ostinino a sprecare il loro tempo e le loro energie a scrivere senza fine sulle relazioni tra il «Libro primo» e il «Libro terzo» del Capitale, a commentare ed interpretare di nuovo tale o tal altro commento su Marx fatto da tale o tal altro dei suoi interpreti, a chiosare instancabilmente dei libri senza quasi mai tener conto della storia reale, della creazione effettiva di forme e di significati nelle e delle attività degli uomini. Una volta di più, per loro la storia si riduce alla storia delle idee - in particolare, alla storia di un numero molto piccolo di idee. Una delle conseguenze è che la storia tende ad essere sempre meno compresa. Poiché la storia non è semplicemente il catalogo dei «fatti» storici: ciò che conta, da un punto di vista rivoluzionario e l'interpretazione di questi fatti, che non si dovrebbe lasciare agli storici dell'ambiente universitario. Questa interpretazione è certo funzione delle «idee teoriche» e del progetto politico dell'interprete. Ma è il legame organico fra questi tre elementi: il progetto, le idee e il tener conto della storia effettiva come sorgente (e non come materiale morto), che specifica il lavoro di un intellettuale rivoluzionario ed esso solo caratterizza la sua rottura radicale con la concezione tradizionale e dominante del «lavoro teorico». Ebbene, oggi, questo legame si trova nei fatti spezzato nel 99% della letteratura di «sinistra».

dei suoi insegnamenti teorici. Avendo passato la vita a giurare sulla List der Vernunft - astuzia della ragione - , è diventato l'estrema personificazione della Unlist der Vernunft - la cecità della semplice «ragione». Prendiamo ora il caso di Imre Nagy, il «politico». Qual è stato il suo aiuto, che cosa ne ha fatto della sua abilità «politica» contro le perfide menzogne della burocrazia russa? Ha trovato un solo istante in sé stesso la chiarezza di dire e la fermezza di proclamare: «Qualunque cosa accada, non crediate mai ai Russi - e so io di che cosa parlo»? No. Ha annaspato; ha tentato di chiedere l'aiuto... delle Nazioni Unite! Là dove si stava facendo la storia, il dramma sanguinoso del potere era là, in persona: carri armati e cannoni erano di fronte alle mani e ai petti nudi di milioni di persone. E Nagy, l'«uomo di Stato», il Realpolitiker, non sapeva pensare che alle Nazioni Unite, questo sinistro pagliaccio dove i banditi di Mosca e di Washington, protetti dai loro secondi e terzi coltelli, si aggrediscono vicendevolmente nei loro discorsi pubblici e si mettono d'accordo sui loro sporchi trucchi nei corridoi. Tale fu la produzione dei professionisti della teoria e della politica, razza non spontanea, cosciente, sapiente e altamente qualificata. I non professionisti, loro, produssero una rivoluzione radicale - non prevista, non preparata, non organizzata da chicchessia e, dunque, «spontanea», come tutte le rivoluzioni della storia. Il popolo ungherese non ha agito «spontaneamente» nel senso in cui un neonato piange «spontaneamente» quando sta male. Esso ha agito a partire dalla sua esperienza sociale e storica, e ne ha fatto qualcosa. Quando chi si acconcia del titolo di «teorico» o di «rivoluzionario» guarda dall'alto ciò che chiama «spontaneità», ecco il postulato nascosto che ha in testa: impossibile che questa canaglia possa mai imparare la minima cosa sulla propria vita, trarre qualche conclusione sensata quale che sia, passare da «due e due» a «quattro» - impossibile, soprattutto, che avanzi delle nuove idee e cerchi proprie soluzioni ai propri problemi. Inutile sottolineare l'essenziale identità di questo postulato con i dogmi fondamentali che riguardano l'uomo e la società che sono da millenni quelli delle classi dirigenti. Una lunga parentesi mi sembra qui necessaria. Non si può che essere sorpresi dal fatto che gli intellettuali «marxisti» e «gauchiste» si ostinino a sprecare il loro tempo e le loro energie a scrivere senza fine sulle relazioni tra il «Libro primo» e il «Libro terzo» del Capitale, a commentare ed interpretare di nuovo tale o tal altro commento su Marx fatto da tale o tal altro dei suoi interpreti, a chiosare instancabilmente dei libri senza quasi mai tener conto della storia reale, della creazione effettiva di forme e di significati nelle e delle attività degli uomini. Una volta di più, per loro la storia si riduce alla storia delle idee - in particolare, alla storia di un numero molto piccolo di idee. Una delle conseguenze è che la storia tende ad essere sempre meno compresa. Poiché la storia non è semplicemente il catalogo dei «fatti» storici: ciò che conta, da un punto di vista rivoluzionario e l'interpretazione di questi fatti, che non si dovrebbe lasciare agli storici dell'ambiente universitario. Questa interpretazione è certo funzione delle «idee teoriche» e del progetto politico dell'interprete. Ma è il legame organico fra questi tre elementi: il progetto, le idee e il tener conto della storia effettiva come sorgente (e non come materiale morto), che specifica il lavoro di un intellettuale rivoluzionario ed esso solo caratterizza la sua rottura radicale con la concezione tradizionale e dominante del «lavoro teorico». Ebbene, oggi, questo legame si trova nei fatti spezzato nel 99% della letteratura di «sinistra». Ma ciò che qui è in causa, in effetti, va molto più lontano. Poiché progetto e idee hanno la loro origine nella storia effettiva, nella attività creatrice delle persone nella società moderna. Il progetto rivoluzionario non è la conseguenza logica di una teoria corretta. In questa sfera, le teorie successive sono piuttosto dei tentativi di formulazione universale di ciò che le masse degli uomini - gli operai dapprima, poi le donne, gli studenti, le minoranze nazionali, ecc. - esprimono da più di due secoli nella loro lotta contro l'istituzione stabilita della società - quale che sia la società al momento delle rivoluzioni - in fabbrica o nella loro vita quotidiana. «Dimenticando» ciò, l'intellettuale «rivoluzionario» si mette in una contraddizione ridicola. Egli proclama che la sua teoria gli permette di comprendere, e allo stesso tempo di giudicare, la storia - e sembra ignorare che la sorgente essenziale di questa teoria è l'attività storica filtrata dal popolo. Così si rende cieco a questa attività tale quale si manifesta nel presente - cieco, per esempio, alla rivoluzione ungherese.

Arriviamo al termine della nostra nota: consideriamo l'opera di Marx. Se non si fosse trattato che d'una «sintesi» della filosofia classica tedesca, dell'economia politica inglese e del socialismo utopico francese, non sarebbe stata che una teoria tra molte altre teorie. Sono le idee politiche che animavano Marx che fanno la differenza. Ma qual è la sorgente di queste idee? Non c'è praticamente nulla là dentro - nulla, in ogni modo, che abbia ancora qualche pertinenza e qualche valore oggi - che lo si possa attribuire a Marx stesso. In queste idee, tutto o quasi, ha la sua sorgente nel movimento operaio tale e quale si costituì tra il 1800 e il 1840; tutto o quasi appare già, nero su bianco, nella letteratura operaia di quest'epoca6. E qual è l'unica idea politica nuova della quale sia stato capace Marx dopo il Manifesto comunista? Quella della distruzione dell'apparato dello Stato e della «dittatura del proletariato» - «lezione», come ha sottolineato lui stesso, della Comune di Parigi: lezione incarnata nell'attività degli operai parigini e, in primo luogo, nella nuova forma d'istituzione che essi crearono: la Comune stessa. Questa creazione, Marx, nonostante la sua teoria e il suo genio, non era stato capace di prevederla. Ma essendo Marx e non marxista, egli seppe riconoscerla a cose fatte7.

Ritorniamo alla nostra discussione principale. Cosa potrebbe essere la «non-spontaneità», a che cosa si oppone la spontaneità? Alla coscienza, forse? Ma chi oserebbe dire che gli operai ungheresi, per esempio, fossero incoscienti? In che senso? Erano dei sonnambuli, degli zombi, sotto LSD? O forse si vorrebbe dire che essi non fossero «abbastanza» coscienti o non coscienti nella «giusta maniera»? Ma che cos'è «abbastanza coscienza», qual'è la «maniera giusta» di essere coscienti? Quella del Sig. Mandel, forse? O quella del Sig. Sartre? O meglio si tratta del Sapere assoluto? Quello di chi? C'è qualcuno nei dintorni che pretende di rappresentarlo? E cosa ne fa? Si sa, in ogni modo, ciò che Kautsky e Lenin hanno fatto del loro sapere.

O si troverebbe nell'organizzazione proprio il contrario della «spontaneità»? Ma la questione è precisamente: quale organizzazione, e organizzazione di chi? L'azione «spontanea degli operai» e del popolo ungherese era un'azione tendente all'organizzazione, e ancor più: la loro spontaneità era precisamente quella, la loro auto-organizzazione. E' proprio ciò che il pseudo «teorico» odia di più: che gli operai invece di aspettare, con una passività entusiasta, che egli venga a «organizzarli», s'organizzano da soli in consigli operai. E come li organizza lui se gliene si dà l'occasione? Come lo hanno fatto durante i secoli le classi dominanti nelle fabbriche e negli eserciti. E non solo se e quando lui prende il potere, ma ancora prima: in un grande sindacato, per esempio, o in un «partito bolscevico», nei quali le relazioni interne, con le loro strutture, il loro contenuto e la loro forma, riproducono semplicemente quelle della società capitalistica: gerarchia, divisione tra uno strato di dirigenti e una massa di esecutori, velo di pseudo «sapere» gettato sul potere di una burocrazia che si coopta e si perpetua, ecc. - sia, la forma appropriata alla riproduzione e alla riproduzione dell'alienazione politica (e, di conseguenza, dell'alienazione globale). Se l'opposto della «spontaneità», vale a dire dell'auto-attività e dell'auto-organizzazione, è l'etero-organizzazione - dei politici, dei «teorici», dei «rivoluzionari professionisti», ecc. -, allora l'opposto della spontaneità è evidentemente la contro-rivoluzione, o la conservazione dell'ordine esistente.

La Rivoluzione è esattamente il processo di auto-organizzazione del popolo. E perciò essa presuppone evidentemente il «divenire cosciente» delle caratteristiche e dei meccanismi essenziali del sistema stabilito, così come del desiderio e della volontà di inventare una nuova soluzione del problema dell'istituzione della società. (E' chiaro, per esempio, che la comprensione in atto che avevano i lavoratori ungheresi del carattere sociale della burocrazia come classe sfruttatrice, e delle condizioni della sua esistenza, era, dal punto di vista teorico, infinitamente superiore a tutte le analisi pseudo «teoriche» contenute in trent'anni di letteratura trotzkysta e nella maggior parte degli altri scritti «marxisti di sinistra»). L'auto-organizzazione è qui l'autoorganizzazione e la coscienza, il divenire-cosciente; in ambedue i casi abbiamo un processo, non uno stato. Non che il popolo abbia alla fine scoperto «la» forma appropriata dell'organizzazione sociale, ma esso si rende conto che questa «forma» è la sua attività d'auto-organizzazione, in accordo alla sua comprensione della situazione e delle mete che si prefigge da solo. In questo senso, la rivoluzione non può essere che «spontanea» nella sua nascita come nel suo sviluppo. Poiché la rivoluzione è auto-istituzione esplicita della società. La «spontaneità» non designa nient'altro che l'attività creatrice socio-storica nella sua espressione più elevata, quella che ha per oggetto l'istituzione della società stessa. Di ciò tutte le esplosioni rivoluzionarie dei tempi moderni offrono degli esempi indiscutibili.

Nessuna azione storica è spontanea, se con ciò si intende quella azione che sorgesse nel vuoto, quella che fosse assolutamente senza relazioni con le condizioni, l'ambiente, il passato. E ogni azione storica è precisamente spontanea nel senso primo di questa parola: spons, «sorgente»8. La storia è creazione, che vuol dire: emergenza di ciò che non è già inscritto nelle sue «cause», le sue «condizioni», ecc., di ciò che non è ripetizione - né strictu sensu, né come variante di ciò che è già dato -, di ciò che è, al contrario posizione di nuove forme e figure, di nuovi significati - vale a dire auto-istituzione. Per dirlo in termini più stretti, più pragmatici, più operazionali: la spontaneità è l'eccesso dell'«effetto» sulle «cause»9.

Gli operai ungheresi hanno agito a partire dalla loro esperienza, e la loro azione fu una elaborazione - nel senso meno banale della parola - di questa esperienza. Ma questa azione non è stata una reazione o una risposta «necessaria», causalmente determinata, ad una situazione data - non più di quanto questa elaborazione non sia stata il risultato di un processo «logico» di deduzione, d'inferenza, ecc. Da un certo numero di anni, una mezza dozzina di paesi dell'Europa dell'Est - e la Russia stessa da ben più tempo - conoscevano una situazione generale essenzialmente simile a quella alla quale si potrebbe tentare di imputare l'esplosione del 1956. Dopo tutto, gli avvenimenti della Germania del 1953, della Polonia nel 1956 (e nel 1970, e nel 1976), in Cecoslovacchia nel 1968, così come le rivolte più limitate e meno conosciute in Russia (Novocerkassk, per esempio), sono la prova di questa essenziale somiglianza. E' nondimeno solo in Ungheria che l'attività popolare ha raggiunto questa intensità appropriata a produrre una rivoluzione. Che l'Ungheria e il suo popolo siano particolari, niente di più sicuro. Lo sono pure ogni paese e ogni popolo. Noi sappiamo che ogni entità individuale è assolutamente singolare e, sotto questo aspetto, assolutamente simile agli altri. Le «particolarità» della storia ungherese, ecc., non sono di alcun aiuto quando ci si sforza di spiegare in maniera esaustiva perché questa forma particolare di rivoluzione ha avuto luogo in questo paese particolare in questo momento particolare10. Una ricerca storica concreta può evidentemente contribuire a «rendere intelleggibile» (ex post, e non si dovrebbero dimenticare i problemi senza fine che questa clausola coinvolge) una parte considerevole delle azioni degli uomini e delle loro reazioni, ecc. Essa non permette mai di saltare da questa descrizione e da questa comprensione parziale delle situazioni, motivazioni, azioni, ecc., alla «spiegazione del risultato».

Così, per esempio, si può dire: una rivoluzione è «causata» dallo sfruttamento e dall'oppressione. Ma queste ultime esistono da più secoli (e da migliaia di anni). Si dice allora: bisogna che lo sfruttamento e l'oppressione raggiungano un «punto estremo». Ma qual è questo «punto estremo»? E non lo si raggiunge in maniera ricorrente, senza che ne derivi ogni volta una rivoluzione? Si continua: questo «punto estremo» dello sfruttamento e dell'oppressione deve coincidere con una «crisi interna» delle classi dirigenti, con lo sgretolamento o con il crollo del regime. Ma cosa volete di più, come sgretolamento e crollo, di quelli realizzati nella maggioranza dei paesi d'Europa dopo il 1918 o dopo il 1945?. Infine: le masse devono aver raggiunto un livello sufficiente di coscienza e di combattività. E che cosa determina il livello di coscienza e di combattività delle masse? La rivoluzione non ha avuto luogo poiché le condizioni per una rivoluzione non erano mature. La più importante di queste condizioni è un livello sufficiente di coscienza e di combattività delle masse. Sufficiente per che cosa? Ebbene, sufficiente per fare la rivoluzione. In breve: non c'è stata la rivoluzione perché non c'è stata la rivoluzione. Tal'è, nella fattispecie, la spiegazione della saggezza «marxista» (o semplicemente «determinista», «scientifica»)11.

Le cose sono ancora più chiare quando si esamina, non la «rivolta», in quanto esplosione e la distruzione dell'ordine antico, ma la rivoluzione in quanto attività auto-organizzata mirante all'istituzione di un ordine nuovo. (Questa distinzione è sicuramente un'astrazione separatrice). In altri termini, quando si esamina il contenuto positivo di ciò che ho chiamato più sopra elaborazione dell'esperienza. L'antico stato di cose, per quanto intollerabile che fosse, non avrebbe potuto suscitare che una dose supplementare di rassegnazione, una recrudescenza della religiosità, o la domanda di riforme più o meno «moderate». Al posto di ciò, il movimento cortocircuitò tutte le altre «soluzioni», e il popolo cominciò a battersi e a morire per la ricostruzione generale della società. Avrebbe un duro compito, il teorico che volesse provare che fosse la sola scelta «logica» e/o «praticabile» per l'Ungheria del 1956. Numerosi paesi del mondo hanno fornito, e continuano a fornire innumerevoli esempi del contrario. Il contenuto positivo della «risposta» - costituzione dei consigli operai, rivendicazione dell'autogestione e dell'abolizione delle norme di lavoro, ecc. - non è stata «dedotta», non è stata la sola scelta del «solo altro termine possibile dell'alternativa», ecc. Fu un'elaborazione che trascese il dato (e tutto ciò che è dato con il dato, implicato da esso o contenuto in esso), e sortì del nuovo.

Che questo nuovo immerga le sue radici in una relazione profonda e organica con le anteriori creazioni del movimento operaio e con il contenuto di altre fasi dell'attività rivoluzionaria, ciò non limita la sua importanza, al contrario. Ciò accentua il fatto che la rivoluzione ungherese s'inscrive nella serie di lotte che mirano, da quasi duecento anni, ad una ricostruzione radicale della società. Ciò indica nell'attività del popolo ungherese un nuovo momento di sviluppo del soggetto rivoluzionario -e, nello stesso tempo, assicura che le sue creazioni hanno un significato che trascende, e da lungi, il momento e le condizioni adatte alla loro nascita. Le forme di organizzazione - i consigli - create dagli operai ungheresi sono dello stesso tipo di quelle create anteriormente e altrove dalle rivoluzioni operaie. Gli scopi e le rivendicazioni proclamati da questi consigli sono nella linea di quelli che sono stati messi al primo posto in tutta quanta la storia del movimento operaio - sia nelle lotte aperte, o nelle lotte informali che si proseguono giorno dopo giorno in tutte le fabbriche del mondo -, mentre su alcuni punti fondamentali (autogestione, abolizione delle norme di lavoro) essi sono più espliciti e radicali. Vi è dunque nel mondo moderno una unità del progetto rivoluzionario. Questa unità possiamo farla diventare «più intelleggibile» indicando ciò che è eredità e continuità storica, ciò che è similarità di condizioni - in particolare di vita e di lavoro - nelle quali il sistema sociale mette la classe operaia. Ma, ancora una volta, per quanto pertinenti, per quanto importanti siano questi fattori, essi non potranno mai darci la «somma delle condizioni necessarie e sufficienti» per la produzione del contenuto delle «risposte» del 1871, 1905, 1917, 1919, 1936-1937, 1956 - o per mancanza di una tale produzione in altri casi. Poiché ciò che qui è presente, è, non una unità «obiettiva», non una unità in quanto identità di un insieme di «effetti» che sgorgano da un insieme di «cause identiche» - ma una unità in formazione, in via di costruirsi, una unità che si fa da sé medesima (e naturalmente non ancora fatta): una unità di creazione socio-storica.

Senza voler minimizzare l'importanza di numerosi altri aspetti della Rivoluzione ungherese, qui tratterò essenzialmente del significato dei consigli operai e di alcuni loro obiettivi e rivendicazioni. Nell'esaminare ciò che ritengo il significato potenziale dei consigli e delle loro rivendicazioni io interpreto: è il caso, naturalmente, di chiunque parli di questo soggetto - o qualsiasi altro soggetto. Io interpreto in funzione delle mie posizioni e prospettive politiche, e delle idee alle quali sono potuto pervenire. Interpreto gli avvenimenti ungheresi del 1956 che sono «particolari» ed «estremi». Do per acquisito che è in questo «particolare», in questo «estremo» che noi possiamo scorgere meglio, attraverso lo strato di vapori dell'abituale e del banale, le virtualità pure, concentrate, corrosive, della presente situazione storica. (Il maggio '68, in Francia, fu ugualmente «particolare» ed «estremo» - ed è a causa di ciò, perché era una situazione limite, che nuove potenzialità si rivelarono, o piuttosto, furono create nel corso degli avvenimenti di Maggio, e grazie ad essi). In fondo, gli avvenimenti d'Ungheria non durarono che qualche settimana. Io affermo che queste settimane - come le poche settimane della Comune di Parigi - non sono meno importanti e significative per noi di tremila anni di storia dell'Egitto faraonico. E se l'affermo è perché penso che ciò che i consigli operai ungheresi contengono potenzialmente, nella loro formazione e nei loro fini, è la distruzione dei tradizionali significati sociali, ereditati e istituiti dal potere politico, da una parte, e, dall'altra parte della produzione e del lavoro - e dunque contengono il germe di una nuova istituzione della società. Cosa che coinvolge, in particolare, una rottura radicale con l'eredità filosofica in ciò che riguarda la politica e il lavoro. I consigli operai sorsero quasi dappertutto, e fu cosa di poche ore perché il paese ne venisse coperto. Il loro carattere esemplare non viene dal fatto che essi erano «operai»; non dipende dalla loro «composizione proletaria», né dal fatto che nascevano nelle «imprese di produzione» e nemmeno dagli aspetti esterni della «forma» consiglio in quanto tale. La loro decisiva importanza risiede nei seguenti fatti: a) l'istituzione della democrazia diretta, in altri termini della vera uguaglianza politica (l'uguaglianza in quanto a potere); b) il loro radicamento in collettività concrete (le quali non è necessario siano solamente di «officina»; c) le loro rivendicazioni relative all'autogestione e all'abolizione delle norme di lavoro. In questi tre punti si constata uno sforzo per abolire la divisione istituita della società e la sostanziale separazione tra i principali ambienti dell'attività collettiva. Qui sono in gioco non solamente la divisione tra «classi», ma anche la divisione tra «dirigenti» e «diretti» (della quale quella tra «rappresentanti» e «rappresentati» è una forma); la divisione tra un «governo» separato o una ristretta sfera «politica» e, dall'altra parte, il resto della vita sociale, in particolare il «lavoro» o la «produzione»; infine la divisione tra gli interessi e le attività immediate, quotidiane, e, dall'altra parte, l'«universale politico». L'abolizione della divisione e della separazione non significa, sicuramente, l'assunzione di una «identità» indifferenziata di ciascuno e di tutti, di una società «omogenea», ecc. (Questo dilemma: o una società divisa in modo antagonista, scissa in una maniera o nell'altra, od omogeneità totale e indifferenziazione generale, è uno dei postulati nascosti della filosofia politica ereditata. Marx lo fece suo, affinché l'eliminazione della divisione sociale, del potere dello Stato, della politica, ecc., dovesse conseguire dall'omogeneizzazione della società prodotta dal capitalismo). L'abolizione della divisione e della separatezza implica il riconoscimento di differenza tra i segmenti della comunità (la loro negazione mediante degli universali astratti - «cittadino», «proletario», «consumatore» - non fa che riaffermare la separatezza che attraversa ciascun individuo) e richiede un altro tipo di articolazione di questi segmenti.

Nell'organizzazione del consiglio, per principio tutte le decisioni devono essere prese, ogni volta che ciò è materialmente possibile, dall'intera collettività di persone interessate, cioè dall'assemblea generale del «corpo politico» (sia che si tratti di una fabbrica, di una amministrazione, di una università o di un quartiere). Un gruppo di delegati garantisce l'applicazione delle decisioni dell'assemblea generale e la continuità della gestione degli affari ordinari nell'intervallo che separa le riunioni dell'assemblea. I delegati sono eletti e revocabili in permanenza (soggetti in tutti i momenti ad una revoca istantanea). Ma qui non sono decisive né questa revocabilità permanente, e nemmeno l'elezione dei delegati. Altri mezzi (la rotazione, per esempio) potrebbero servire agli stessi fini. Il punto importante è che il potere di decidere appartiene all'assemblea generale, che può ritornare sulle decisioni dei delegati, e che questi ultimi non hanno che un «potere» residuo, che in principio non esiste se non in quanto l'assemblea generale non può restare in sessione 24 ore su 24.

Questo potere dell'assemblea generale ha come significato immediato l'abolizione della divisione instituita nella società tra «dirigenti» e «diretti». Esso elimina in particolare la mistificazione politica regnante (che non è antica, ma tipicamente moderna), che vuole che la democrazia equivalga alla rappresentazione - con la qual cosa si intende evidentemente la rappresentazione permanente. Delega irrevocabile (anche se essa è formalmente limitata nel tempo) del potere dei «rappresentanti» ai «rappresentanti», la rappresentanza è una forma di alienazione politica. Decidere è decidere da se stessi, non è decidere chi deve decidere. La forma giuridica delle elezioni periodiche non fa che mascherare questa espropriazione. Non è qui necessario riprendere la ben nota critica alle «elezioni» nei sistemi sociali e politici esistenti. Senza dubbio importa di più sottolineare un punto generalmente trascurato: la rappresentanza «politica» tende ad «educare» - vale a dire a dis-educare - le persone, nella convinzione che esse non saprebbero amministrare i problemi della società, che esista una categoria speciale di uomini dotati della capacità specifica di «governare». La rappresentanza permanente fa coppia con la «politica professionale». Essa contribuisce quindi all'apatia politica, cosa che, a sua volta, allarga nello spirito delle persone la fossa tra cose conosciute e la complessità dei problemi sociali e la loro attitudine a dedicarvisi.

Inutile aggiungere che né il potere dell'assemblea generale, né la revocabilità dei delegati, né la loro responsabilità davanti all'assemblea, sono delle panacee che «garantiscono» l'impossibilità di una degenerazione, burocratica o altro, della rivoluzione. L'evoluzione dei consigli o di tutti gli altri organismi autonomi, e il loro ultimo destino, dipendono dall'auto-attività delle masse, dall'auto-mobilitazione e, da ciò che gli uomini faranno e da ciò che non faranno, dalla loro partecipazione attiva alla vita degli organi collettivi, dalla loro volontà di premere con tutto il loro peso in ogni momento del processo: discussione, elaborazione, decisione, applicazione e controllo. sarebbe una contraddizione di termini ricercare una forma istituzionale che, per sua sola virtù, assicurasse questa partecipazione e costringesse la gente ad essere autonoma, la forzasse a fare prova di auto-attività. La forma del consiglio - come qualsiasi altra forma dello stesso genere - non garantisce, e non può garantire, lo sviluppo di una tale attività autonoma; ma essa la rende possibile - mentre le forme politiche istituite - che si tratti della «democrazia rappresentativa», o del potere, anche la leadership, di un partito - garantiscono l'impossibilità di un tale sviluppo, e lo rendono impossibile con la loro stessa esistenza. Ciò che qui è in gioco è la «de-professionalizzazione» della politica, la sua abolizione in quanto sfera speciale e separata di attività e di competenza; e, reciprocamente, è la politicizzazione universale della società, ciò che vuole semplicemente dire che gli affari della società sono, nei fatti e non a parole, affare di tutti. (Ciò che è l'esatto opposto della definizione della giustizia data da Platone: occuparsi dei propri affari e non fare pasticci immischiandosi in un sacco di cose).

Una fase rivoluzionaria comincia necessariamente con uno scatenamento dell'attività autonoma delle persone; se essa supera la fase della «rivolta» o dell'«episodio rivoluzionario» conduce alla creazione di organi autonomi di massa. Azione, passione, abnegazione, «sacrificio di sé», tutto ciò si esprime con larghezza; si assiste ad uno straordinario dispendio di energia. Gli individui si mettono ad interessarsi attivamente agli affari pubblici come se si trattasse dei propri affari - ed è quello che sono in verità. La rivoluzione si manifesta così alla società come svelamento della sua propria verità rifiutata. Questo svelamento si accompagna, come materia d'ispirazione e d'invenzione sociali, politiche, pratiche e tecniche, a gesta e imprese incredibili, quasi miracolose. (La Rivoluzione ungherese ne ha fornito ancora una volta l'abbondante illustrazione: chi non ricorda dell'audacia e del talento con i quali i consigli operai ungheresi continuarono a combattere Kadar per più di un mese dopo la seconda invasione e l'occupazione totale del paese da parte di un'enorme armata russa?).

La continuazione e lo sviluppo ulteriore dell'attività autonoma del popolo dipendono essi stessi dall'ampiezza e dal carattere del potere degli organi di massa, dal rapporto fra le questioni discusse e l'esistenza concreta delle persone, e le differenze che le decisioni prese apportano o no alle loro vite. (In questo senso il problema principale della società post-rivoluzionaria è la creazione di istituzioni che permettano il proseguimento e lo sviluppo di questa attività autonoma, senza per questo esigere delle gesta eroiche 24 ore su 24). Più gli individui si accorgeranno nella loro esperienza reale che la loro esistenza quotidiana dipende in modo cruciale dalla loro partecipazione attiva all'esercizio del potere, più avranno la tendenza a partecipare a questo esercizio. Lo sviluppo dell'autoattività si nutre della sua sostanza. Al contrario, ogni limitazione degli organi autonomi di massa, ogni tentativo di trasferire una «parte» di questo potere ad altre istanze (parlamento, «partito», ecc.) non può che favorire il movimento opposto verso una minore partecipazione, la perdita di interesse per gli affari della comunità e, per finire, l'apatia. La burocratizzazione comincia quando le decisioni riguardanti gli affari comuni sono sottratte alla competenza degli organi di massa, e sotto la copertura di diverse razionalizzazioni, sono affidate a degli organismi specifici. Se si permette che questo trasferimento avvenga, la partecipazione popolare e l'attività degli organi di massa caleranno inevitabilmente. Il vuoto che ne risulterà sarà occupato da delle istanze burocratiche sempre più numerose che «dovranno» prendere delle decisioni su dei soggetti sempre più numerosi. E le persone finiranno per abbandonare gli organi di massa, dove non viene più deciso niente di importante, e ritorneranno a questo stato di indifferenza cinica verso la «politica» che non è solamente una caratteristica delle società attuali, ma la condizione stessa della loro esistenza. Allora, sociologi e filosofi scopriranno in questa «indifferenza» la «spiegazione» e la «giustificazione» della burocrazia (dopo tutto, bisogna che qualcuno si prenda cura degli affari pubblici12).

Ora, la vita concreta e l'esistenza quotidiana degli uomini dipendono invisibilmente sia da quello che accade a livello sociale e politico «generale», sia da ciò che avviene nella collettività particolare alla quale appartengono e nelle attività specifiche alle quali partecipano. La separazione e l'antagonismo di queste due sfere è una delle espressioni essenziali della separazione e alienazione nella società attuale. E' in ciò che risiede l'importanza della rivendicazione autogestionaria dei consigli operai ungheresi, e della rivendicazione della formazione di consigli in tutti i settori della vita nazionale. Una «partecipazione» al potere politico generale che lascia le persone senza potere sul loro ambiente immediato e sulla gestione delle loro attività concrete è evidentemente una mistificazione. E ciò vale ugualmente per una «partecipazione» o una autogestione che si limiti, per esempio, alla fabbrica, e che abbandoni il «potere politico generale» ad una sfera separata. Quello che implicano le rivendicazioni dei consigli operai ungheresi, è il superamento di questa separazione e di questa opposizione: che gli uomini amministrino le collettività concrete alle quali appartengono - non soltanto nelle «fabbriche», ma «in tutti i settori della vita nazionale»; e che essi partecipino al potere politico, non sotto altri vecchi abiti - come «cittadini» che votano, ecc. -, ma per l'appunto attraverso gli organi di gestione che sono loro espressione diretta, vale a dire i consigli13. Così è eliminato l'astratto dilemma divisione-omogeneizzazione della società; così ci si incammina verso un modo d'articolazione tra la società complessiva e i segmenti particolari che la compongono. E' così possibile svelare, indipendentemente da ogni altra considerazione, la mistificazione che nascondono i «consigli operai» jugoslavi e la loro «autogestione delle aziende». Non potrebbe esistere «autogestione delle aziende» se sussistesse separatamente un apparato e un potere di Stato. Pure nel ristretto dominio della «gestione dell'azienda», le iniziative e le attività dei lavoratori non potrebbero che essere paralizzate e, alla fine, annullate se esse dovessero limitarsi a qualche punto secondario riguardante il funzionamento delle fabbriche (ed essenzialmente, l'aumento della loro produzione). Per tutto questo tempo la «Lega dei comunisti jugoslavi» conserva il potere totale su ogni importante dominio, e quindi, in definitiva, su quello che accade nelle fabbriche stesse. Reciprocamente, è ugualmente possibile capire perché il potere dei consigli, o di altri organi analoghi (per esempio, il Soviet in Russia dopo il 1917), non può che ridursi rapidamente ad una forma vuota se lo si limita a sole questioni «politiche», nel senso stretto e coerente del termine. (Tale era la linea che Lenin preconizzava sulla carta quando parlava del «potere ai Soviet»; infatti fece tutto quello che poté perché il partito bolscevico ottenesse tutto il potere - e vi riuscì). Poiché allora si reintroduce e si riafferma la divisione tra una sfera «politica» nel senso tradizionale e l'esistenza concreta degli uomini. Se i consigli o Soviet non sono chiamati che a votare delle leggi e dei decreti, che a designare dei commissari, essi non dispongono che del fantasma astratto del potere. Separati così dalla vita quotidiana e dal lavoro del popolo, sempre più allontanati dagli interessi e dalle preoccupazioni delle collettività concrete, occupandosi (o piuttosto, presupponendo di occuparsi) di problemi di governo lontani e generali, i Soviet erano condannati a diventare rapidamente, agli occhi del popolo (e ciò sarebbe accaduto anche se il partito bolscevico non li avesse dominati e manipolati) delle semplici «istanze ufficiali» tra altre, che non gli appartenevano e non si curavano di ciò di cui esso si curava14.

Se parlo di organi di massa «autonomi», non è solamente perché, per esempio, essi non obbedivano a degli individui, a dei partiti, al «governo». Li chiamo così perché e in quantoché essi non accettavano l'istituzione stabilita della società. Ciò significa in particolare: in primo luogo, che negavano ogni legittimità ad un potere che non veniva da essi stessi; e in secondo luogo, che rifiutavano al loro interno la divisione tra quelli che decidevano e quelli che eseguivano. Il primo punto non implica solamente che essi creavano una situazione di «dualità di potere», o anche che tendevano ad assumere tutto il potere; ma che gli organi autonomi si ponevano essi come la sola sorgente legittima di decisione, di regole, di norme e di leggi, vale a dire come organo ed incarnazione di una nuova istituzione della società. Il secondo punto implica che essi sopprimevano con i loro atti la divisione tra una «sfera della politica» o del «governo», e una sfera della «vita quotidiana», come essenzialmente separate e antagoniste - che essi abolivano, in altri termini, la divisione tra gli specialisti dell'universale e quelli della trivellazione, della trapanatura, dell'idraulica, dell'aratura, ecc. In effetti, questo secondo punto è l'applicazione concreta del primo, del dominio immediatamente più importante. Poiché, da migliaia di anni, l'istituzione delle società «storiche» nel campo politico - come pure lo schema nucleare delle istituzioni delle relazioni sociali in ogni altro dominio - è stato quello di una gerarchia fra gli uomini. Questa istituzione è stata, allo stesso tempo e inseparabilmente, istituzione «reale-materiale» - che si sostanzia in una rete di rapporti sociali e in posizioni individuali, e che si dota di strumenti come possessi, privilegi, diritti, «sfere di competenza», utensili e armi -, e istituzione di un significato immaginario sociale - o piuttosto di una gamma di significati immaginari sociali, il cui nucleo differisce secondo le società - , in virtù del quale le persone sono definite, concepite e «agite», reciprocamente e per loro stesse, come «superiori» e «inferiori» secondo una o più relazioni d'ordine socialmente istituite. L'interiorizzazione da parte di ciascuno e di tutti di questo dispositivo, più ancora: l'impossibilità, quasi, per ogni individuo di pensare a sé stesso e agli altri, anzi di esistere socialmente e psichicamente senza situarsi in un punto qualunque (fosse esso il più basso) di questa gerarchia, è stato e rimane una pietra angolare dell'istituzione delle società «storiche». Il capitalismo burocratico contemporaneo tende a spingere al limite l'organizzazione gerarchica e a darle la sua forma più universale e la sua espressione più pura, fondandola come organizzazione «razionale» per eccellenza15. La struttura gerarchica e piramidale dell'«organizzazione», onnipresente nella società contemporanea, sostituisce la bipartizione tradizionale della società capitalistica in due classi principali. Essa l'ha completamente sostituita da più di cinquant'anni in Russia e da un quarto di secolo in Europa e in Cina. E' quella la forma dominante di relazioni di sfruttamento e di oppressione nel mondo contemporaneo16.

Questa struttura, e i significati che le sono consustanziali, sono rifiutati e confutati dalle organizzazioni del tipo «consiglio». Che tutti quelli che sono coinvolti siano investiti di potere, ed ecco distrutta la struttura gerarchica, e abolita la divisione tra quelli che dirigono e quelli che sono confinati in compiti di esecuzione. Questa attribuzione di potere ad ognuno, materializza quindi l'uguaglianza politica completa. Le decisioni non sono prese né da specialisti di specialità, né da specialisti dell'universale. Esse sono prese dal collettivo di quelli che dovranno eseguirle - e che si trovano, per questo stesso fatto, nella posizione migliore possibile per giudicare non solamente delle astratte «ottimalità» dei mezzi rispetto ai fini, ma anche delle condizioni concrete di questa esecuzione e, soprattutto, del suo costo reale: il loro proprio sforzo, il loro proprio lavoro. Ciò implica, nella sfera della produzione per esempio, che le decisioni sui problemi aventi relazione ad un luogo particolare di lavoro - diciamo un reparto di fabbrica - e che non hanno ripercussioni sulle attività di altri reparti, devono essere prese dai lavoratori del relativo reparto. Allo stesso modo, le decisioni su dei problemi attinenti a più reparti, o ad un dipartimento, devono essere prese dai lavoratori di questi reparti, o di quel dipartimento; e quelle riguardanti la fabbrica nel suo insieme, dall'Assemblea generale dei lavoratori della fabbrica, o dai delegati eletti e revocabili. Così, il carattere pertinente o meno, corretto o meno, delle decisioni prese può essere stimato dai principali interessati in un tempo minimo e ad un costo minimo. Così anche può cominciare la costruzione di un'esperienza riguardante tanto i problemi quanto l'esercizio effettivo della democrazia diretta. E' questa un'altra illustrazione di ciò che ho chiamato articolazione.

«Nessuna tassazione senza rappresentanza»; questa parola d'ordine della borghesia nascente di fronte alla monarchia esprime perfettamente e profondamente lo spirito e le strutture del mondo che la borghesia era in corso di creare nella sua terra classica. Nessuna esecuzione senza parti uguali di tutti nella decisione, tale è uno dei principi fondamentali di società auto-gestita, e che si sprigiona immediatamente dalle rivendicazioni dei Consigli operai ungheresi.

L'abolizione della divisione e dell'antagonismo tra specialisti e non specialisti non significa evidentemente la soppressione della loro differenza. L'autogestione non richiede che la si trascuri, che non si tenga in conto «competenza» e «sapere» specializzato, ovunque esistano e abbiano un senso; al contrario. (Infatti, è nella struttura sociale attuale che non se ne tiene conto e che le decisioni prese dipendono prima di tutto dalla lotta tra cricche e clan, di cui ciascuno utilizza le «sue» specialità a fini di giustificazione e di copertura). Gli specialisti non sono eliminati in quanto tali. Per restare al caso della fabbrica, tecnici, ingegneri, contabili, ecc., appartengono al collettivo; essi possono e debbono essere ascoltati, e come membri del collettivo, e nelle loro capacità tecniche specifiche. Un'assemblea generale è perfettamente in grado di capire un ingegnere che le dice: «Se volete A, io non conosco altre maniere di fabbricarlo che X e Y; e vi ricordo che la scelta di X comporterà Z, che quella di Y comporterà V e W». Ma spetta all'assemblea, e non all'ingegnere, decidere di fabbricare o no A, e di scegliere tra X e Y. Che si possa sbagliare, certo. Ma le sarà difficile sbagliarsi di più che, per esempio, la Panamerican Airways, la cui direzione, poggiandosi sulla perizia di centinaia di tecnici, statistici, informatici, econometrici, specialisti dell'economia dei trasporti, ecc., si è accontentata di estrapolare per il futuro la curva della domanda di trasporto aerei degli anni '60 - errore che non avrebbe commesso uno studente del primo anno mediamente intelligente -, per andare a finire quasi al fallimento dal quale il governo americano ha dovuto tirarla fuori.

Ciò che qui è in gioco, è ben più che le tradizionali formulazioni sui limiti di ogni competenza o conoscenza tecnica e specializzata, fondata sulla distinzione tra «mezzi» e «fini» (più o meno omologa alla separazione tra i «valori» da una parte, e gli «strumenti» neutri o «liberi» di «valori» dall'altra parte). Una simile distinzione è un'astrazione, e non ha che una qualche validità se non nei domini parcellari e banali al di là dei quali essa diventa un inganno. Noi non diciamo che le persone devono decidere cosa fare e che i tecnici diranno loro come farlo. Noi diciamo: dopo aver ascoltato i tecnici, le persone decidono cosa fare e come farlo. Poiché il «come» non è neutro, né il cosa disincarnato. «Cosa» e «come» non sono né identici, né esterni l'un l'altro. Una tecnica «neutra» è, certamente, un'illusione. Una catena di montaggio è legata ad un tipo di prodotto e ad un tipo di produttori - e viceversa17. La rivendicazione dei consigli operai ungheresi che mirano all'abolizione delle norme di lavoro, salvo decisione contraria degli stessi lavoratori, ci permette di vedere questo problema sotto un'angolatura differente e in una maniera più concreta - nello stesso tempo in cui essa porta in germe una nuova concezione del lavoro, dell'uomo, e delle loro relazioni. Se, una volta decisi i compiti, i diversi «mezzi» tecnici - attrezzature, materiali, ecc. - sono dati per acquisiti, allora il lavoro vivo stesso sembra essere semplicemente un mezzo tra gli altri, che bisogna utilizzare nella maniera più «razionale ed efficace». Va da sé che il «come» di questo utilizzo dipende dalle competenze dei tecnici interessati, che devono determinare «la sola buona maniera» di fare il lavoro così come il tempo che gli compete. Si conosce l'assurdità dei risultati che ne conseguono e il conflitto permanente così introdotto nel processo di lavoro. Ma qui il nostro proposito non è di fare la critica del carattere irrazionale del taylorismo e della «razionalizzazione» capitalistica (e «socialista») del processo di lavoro. E l'esigenza dell'abolizione delle norme di lavoro non è più semplicemente un mezzo per l'operaio di difendersi contro lo sfruttamento, l'accelerazione dei ritmi, ecc. Questa rivendicazione comporta degli elementi positivi di una importanza suprema. Essa significa che quelli che sono incaricati di eseguire un lavoro sono quelli che hanno il diritto di decidere sul ritmo del lavoro. Questo ritmo, concepito nel quadro capitalista, «razionalista», come uno dei momenti dell'applicazione di una decisione, come facente parte dei «mezzi», non è naturalmente tale; è una dimensione essenziale della vita dell'operaio al lavoro, vale a dire della sua vita semplicemente. E i lavoratori non potrebbero resistere allo sfruttamento senza fare qualcosa di positivo riguardo alla produzione stessa. Se le norme imposte dall'esterno sono abolite, non bisognerà nemmeno regolare, in un modo o nell'altro, il ritmo del lavoro, essendo dato il carattere collettivo, cooperativo, della produzione moderna. La sola istanza concepibile che possa promulgare queste regole è allora il collettivo dei lavoratori stessi. I gruppi di operai e i collettivi di reparto, di dipartimento, di fabbrica, dovranno stabilire la propria disciplina e assicurarne il rispetto (d'altra parte già oggi lo fanno in maniera informale ed «illegale»). Ciò implica il rifiuto categorico dell'idea che «l'uomo si sforza di evitare il lavoro... L'uomo è un animale pigro» (Trotzky, Terrorismo e Comunismo) - e che la disciplina del lavoro non possa derivare che dalla coercizione esteriore o da stimoli finanziari. Nei sistemi di sfruttamento, non è l'organizzazione coercitiva del lavoro ad essere una risposta alla «pigrizia umana» - ma è questa «pigrizia» ad essere una risposta naturale e comprensibile al lavoro sfruttato ed alienato18.

Si può ugualmente percepire in un'altra serie di implicazioni il carattere germinale delle rivendicazioni attinenti l'autogestione e l'abolizione delle norme. Una volta accettato il principio del potere degli interessati sulle proprie attività e il rigetto della distinzione tra «mezzi» e «fini», non si potrebbero dare per acquisiti attrezzature, utensili e macchine; non potrebbe più essere accettabile che questi strumenti siano imposti ai loro utilizzatori da ingegneri, tecnici, ecc., che li concepirebbero nell'unico scopo di «accrescere l'efficacia della produzione», ciò che, in effetti, vorrebbe dire: aggravare ancora la dominazione dell'universo meccanico sugli uomini. Un cambiamento radicale nel rapporto dei lavoratori con il loro lavoro implica un cambiamento radicale della natura degli strumenti di produzione. Presuppone innanzitutto che il punto di vista degli utilizzatori sia quello che predomina nel processo della loro concezione e della loro realizzazione. Bisogna adattare la macchina all'uomo, e non l'uomo alla macchina. Un socialismo della catena di montaggio sarebbe una contraddizione di termini, se non fosse una sinistra mistificazione. Ciò conduce evidentemente al ripudio delle caratteristiche fondamentali dell'attuale tecnologia - ripudio che esige parimenti i cambiamenti necessari nella natura dei prodotti finali dell'industria. Alla macchina d'oggi corrisponde la robaccia d'oggi, e questa robaccia necessita questo tipo di macchina. E tutte e due implicano e tendono a riprodurre un certo tipo d'uomo.

E' evidente che numerosi problemi, e per nulla banali, sorgeranno lungo questo cammino. Ma, per quanto lontano si possa vedere, nulla li rende insormontabili. In ogni caso, essi non lo sono di più di quelli che suscita ogni giorno l'istituzione antagonista presente nella società. Se per esempio, i gruppi di lavoratori stabiliscono il proprio ritmo di lavoro, il problema apparirebbe sia come «uguaglianza» di ritmo tra i differenti gruppi - in altri termini, come giustizia -, sia come integrazione di questi diversi ritmi nel processo complessivo di produzione. Questi due problemi esistono oggi, e, nei fatti, non sono «risolti». Si farà un considerevole progresso quando lo si formulerà e lo si discuterà esplicitamente. Ed è probabile che non soltanto considerazioni di equità, ma anche l'interdipendenza dei differenti stadi del processo di lavoro (così come, in una tappa che presto dovrà seguire, la rotazione degli individui tra le aziende, servizi, ecc.) porterebbero il collettivo dei lavoratori a non tollerare dei gruppi che avessero la tendenza a rendersi la vita troppo facile. In maniera analoga, la costruzione delle macchine secondo il punto di vista dei loro utilizzatori renderebbe necessaria una cooperazione stretta e costante tra questi ultimi e gli operai che costruirebbero le macchine. Più in generale, un'organizzazione collettivista della produzione - e di ogni altra attività sociale - implica naturalmente un'ampia misura di responsabilità sociale e di mutuo controllo. Occorrerà che i diversi segmenti della società si comportino in maniera responsabile ed accettino di giocare il loro ruolo nell'esercizio del mutuo controllo. Un'ampia e permanente discussione pubblica dei problemi comuni, così come la creazione di reti di delegati delle organizzazioni di base, sembrano, all'evidenza, essere gli strumenti e i veicoli adatti per la coordinazione delle attività sociali.

Non è qui il luogo per discutere le questioni ancora più generali, più importanti e più difficili che affronterà una società collettiva, comunitaria, relativamente, per esempio, all'integrazione e all'orientamento della «economia totale» - o delle altre attività sociali -, alla loro interdipendenza reciproca, all'orientamento generale della società, e così via. Infatti, come ho tentato di sottolineare da molto tempo19, il problema cruciale di una società post-rivoluzionaria non è né quello della «gestione della produzione», né quello dell'organizzazione dell'economia. E' il problema politico propriamente detto - ciò che si potrebbe chiamare il negativo del problema dello Stato: vale a dire la capacità della società di stabilire e di conservare la sua unità esplicita e concreta, senza che sia incaricata di questo «compito» una istanza separata e relativamente autonoma - l'apparato dello Stato. Tra parentesi, questo problema il marxismo classico e Marx stesso l'hanno, di fatto, ignorato. L'idea della necessità della distruzione dello Stato come apparato distinto e quasi autonomo non è stato accompagnato da una presa in considerazione in positivo del problema politico. Il problema lo si è piuttosto fatto «sparire» (miticamente, s'intende) nella prospettiva dell'unificazione e dell'omogeneizzazione esplicite, «materiali», che lo sviluppo del capitalismo si riteneva generasse nella società. La «politica», per Marx, Lenin, ecc., è la lotta contro la borghesia, l'alleanza con le altre classi, ecc.; in breve, l'eliminazione dei «resti del mondo antico». Non è l'istituzione e l'organizzazione positiva del mondo nuovo. Per Marx, in una società al 100% proletaria, non ci sarebbe e non dovrebbe esserci il problema politico (viene da lì una delle spiegazioni al suo rifiuto a preparare delle «ricette per le cucine socialiste del futuro»). Questo approccio affonda le proprie radici in tutta la sua filosofia della storia: socialismo o barbarie, forse; ma se questo non è la barbarie, allora è il socialismo - e il socialismo è determinato. L'ironia della storia ha voluto che la prima rivoluzione vittoriosa avesse luogo in un paese dove la popolazione, è il meno che si possa dire, non era «unita e disciplinata dal processo stesso della produzione capitalistica». Ed al partito bolscevico e al terrore totalitario di Stalin toccò la cura di unificare ed omogeneizzare la società russa. Fortunatamente il loro successo non è stato totale.

Ma noi, non possiamo trovare la risposta alla questione dell'unità della società post-rivoluzionaria in un processo d'omogeneizzazione «oggettivo-soggettivo» che non esiste. Non potremmo trovarla, d'altra parte, nemmeno se esistesse. Non è mai possibile eliminare il problema politico in quanto tale. L'unità della società post-rivoluzionaria non potrà essere effettuata - cioè costantemente ricreata - se non mediante l'attività unificatrice permanete degli organi collettivi. Ciò che presuppone, naturalmente, la distruzione di ogni «apparato di Stato» separato - ma anche l'esistenza ed il rifacimento continuo delle istituzioni politiche - per esempio, i consigli e le loro articolazioni -, che non siano antagonisti della società «reale», ma che non le saranno neppure direttamente ed immediatamente identici. E su questa strada non si trova nessuna magica garanzia che sarà facilmente elaborato un consenso sociale e che spariranno tutte le eventuali frizioni tra segmenti della comunità. Nulla assicura che, forse avvalendosi delle tensioni che deriveranno dai sottostanti antagonismi sociali, non appaia uno strato che cerchi di occupare delle posizioni di potere permanenti, preparando così la restaurazione e la divisione tra dirigenti ed esecutori ed un apparato di Stato separato. Ma, in materia, non possiamo andare al di là della questione così posta: o gli organi collettivi autonomi del popolo sapranno inventare una soluzione, o meglio un processo di soluzioni, al problema del mantenimento della società come unità differenziata; oppure, se le masse si riveleranno incapaci di progredire in questa direzione, s'imporranno decisamente delle soluzioni di «sostituzione» - sotto le forme, per esempio, del potere di un «partito rivoluzionario» e della ricostruzione di una burocrazia permanente. I «vecchi casini» si ristabiliranno allora ipso facto.

No che noi non riconosceremmo il cammino. Non c'è cammino; nessun cammino che non sia già stato tracciato. E' l'attività collettiva ed autonoma degli uomini che l'aprirà, se così deve essere. Ma noi sappiamo quello che non è il cammino, e sappiamo quello che è il cammino che porta ad una società burocratica totalitaria.

La Rivoluzione ungherese non ha avuto né tempo, né la possibilità di far fronte a questi problemi. Tuttavia, nel breve spazio del suo sviluppo, essa ha non solamente distrutto l'ignobile mistificazione del «socialismo» staliniano, ma essa ha anche posto qualcuna delle questioni più importanti che deve affrontare la ricostruzione rivoluzionaria della società umana, ed ha dato loro qualche embrionale risposta. Noi non dobbiamo soltanto onorare l'eroica lotta del popolo ungherese: nella sua decisione e nella sua risoluzione di gestire esso stesso la sua vita collettiva e, a questo fine, di cambiare radicalmente una istituzione della società che risale all'origine dei tempi storici, noi dobbiamo riconoscere una delle sorgenti creatrici della storia contemporanea.

Agosto 1976

* N.6/7 di Collegamenti del 1979

Note:
1 «La révolution proletarienne contre la bureaucratie», Socialisme ou Barbarie, n.20 (dicembre 1956); ripreso in La société bureaucratique, vol.2, Parigi, 1973, p.227-278. Il presente testo presuppone da parte del lettore una certa familiarità con i principali fatti riguardanti gli avvenimenti del 1956 in Ungheria, e, in particolare, la composizione, le attività e le rivendicazioni dei consigli operai. I nn. 20 e 21 (marzo 1957) di Socialisme ou Barbarie sono essenzialmente dedicati agli avvenimenti del 1956 in Ungheria e in Polonia e contengono documenti e testi dovuti a dei rifugiati che avevano partecipato alla Rivoluzione ungherese. Per qualche indicazione bibliografica, vedere La société bureaucratique, ib., p.265.

2 Cfr. il mio articolo citato in nota 1, in particolare le pp. 278-307; anche «Sur le contenu du socialisme, III: La lutte des ouvriers contre l'organisation de l'entreprise capitaliste», S. ou B., n.23 (gennaio 1958); ripreso in L'Experience du mouvement ouvrier, vol.2, Parigi, 1974, pp. 9-88. Il libro straordinario dell'ungherese Miklos Haraszti, A cottimo, Operaio in un paese socialista, Milano, Ed. Feltrinelli, 1978, dimostra ancora una volta l'identità totale della natura dei rapporti di produzione e dell'organizzazione del processo di lavoro tra le fabbriche «capitaliste» dell'Ovest e le fabbriche «socialiste» dell'Est.

3 Ho discusso a suo tempo gli avvenimenti polacchi in «La voie polonaise de la bureaucratisation», S. ou B., n.21 (marzo 1957), ripreso in La société bureaucratique, vol.2, ib., pp. 339-371. Vale la pena di citare un po' più estesamente l'inimitabile E. Mandel; così il lettore sarà persuaso che non mi lascio andare all'esagerazione polemica: «La democrazia socialista avrà ancora delle battaglie da combattere in Polonia. Ma la battaglia principale, quella che ha permesso a milioni di proletari di identificarsi di nuovo nello Stato operaio, è già stata vinta». E più avanti: «La rivoluzione politica che scuote da più di un mese l'Ungheria ha conosciuto uno svolgimento più spasmodico e più diseguale della rivoluzione politica in Polonia. Essa non è, come questa, passata di vittoria in vittoria (sic)... Contrariamente a quello che succede in Polonia, la rivoluzione ungherese è stata una esplosione elementare e spontanea. La sottile (!) interazione tra i fattori oggettivi e soggettivi, tra l'iniziativa delle masse e la costruzione d'una nuova direzione, tra la pressione dal basso e la cristallizzazione di una frazione di opposizione in alto, ai vertici del partito comunista, interazione che ha reso possibile la vittoria polacca (?!) è mancata in Ungheria». Quatriéme Internationale, dicembre 1956 (le sottolineature sono mie). Raramente sono state espresse con più chiarezza - e con uno stile più risibile - l'essenza burocratica del trotzkysmo, la sua natura di frazione in esilio della burocrazia staliniana, la sua aspirazione ad integrare l'apparato di partito in occasione di una lotta di frazione al suo interno e di una «pressione della base».

4 Faccio riferimento ai punti che considero i più importanti, quali furono già formulati il 28-29 ottobre 1956. Per quanto incredibile possa sembrare, la rivendicazioni dei consigli dopo l'11 novembre (cioè dopo l'occupazione totale del paese da parte dell'armata russa e dopo il massacro di migliaia di persone) erano ancora più radicali, poiché esse comprendevano la costituzione di milizie operaie e la creazione dei consigli in tutti i rami d'attività, ivi comprese le amministrazioni governative.

5 Non parlo qui delle persone in quanto tali, ma del senso del loro comportamento. In questo contesto, la tragedia personale di Lukàcs (o di Nagy, ecc.) non è pertinente. Per ciò che più particolarmente riguarda Lukàcs, il marxista hegeliano, sarebbe un po' troppo l'abbattersi quanto il piangere sul suo «dramma soggettivo».

7 Non è più sorprendente notare che, malgrado questo precedente ed il riconoscimento di Marx dell'importanza fondamentale della forma della Comune, la prima reazione di Lenin all'apparire spontaneo dei Soviet nel corso della Rivoluzione del 1905 fu negativa e ostile. Il popolo agiva diversamente da come lui, Lenin, aveva deciso -sulla base della sua «teoria» - che il popolo dovesse fare.

8 Ricostruzione ipotetica di un senso iniziale non direttamente attestato. In latino spons non è usato al nominativo; negli altri casi è abitualmente tradotto con «volontà». Ma il greco spendo (da cui spondé) significa versare un liquido, fare una libagione (come l'ittita sipant, ispant); il suo senso originario può difficilmente essere distinto da leibô, kheô. Cfr. E. Benveniste, Vocaboulaire..., vol.2 p.209 e 224.

9 Il postulato d'«identità», che sottende tutto il pensiero filosofico e scientifico, equivale ad affermare che tale «eccesso», se e quando esiste, non è mai altro che «la misura della nostra ignoranza». la presunzione che l'accompagna è che si possa, de jure, ridurre a zero questa misura. Alla qual cosa la risposta più breve è: Hic Rhodus, hic salta. Possiamo in tutta fiducia metterci a sedere e aspettare serenamente il giorno in cui la differenza tra Tristano e Isotta e l'insieme delle sue «cause» e delle sue «condizioni» (la società borghese degli anni intorno al 1850, l'evoluzione degli strumenti e dell'orchestra, l'incoscienza di Wagner, ecc.) sarà ridotta a zero.

10 Sebbene si possa sicuramente «spiegare» perché questo tipo di rivoluzione nel 1956 non abbia avuto luogo in Egitto, in Iran o a Giava.

11 Per un'altra illustrazione di questo tipo di «argomenti»: è esatto che una delle principali differenze tra la Polonia e l'Ungheria del 1956 è stata nella capacità del P.C. polacco di «adattarsi» agli avvenimenti - cosa che il P.C. ungherese non ha saputo fare - , ma perché il P.C. polacco è riuscito là dove il P.C. ungherese si è incagliato? Precisamente perché in Polonia il movimento non è andato molto lontano, cosa che ha permesso al P.C. di continuare ad esistere e a giocare il suo ruolo - mentre in Ungheria la violenza e il carattere radicale del movimento hanno ridotto molto in fretta al nulla il P.C. E ciò spiega anche, fino ad un certo punto, i diversi atteggiamenti del Cremlino nei due casi.. Fintanto che in Polonia un partito burocratico sopravviveva e conservava, bene o male, le redini, la burocrazia di Mosca ha creduto, non senza ragione, che essa potesse risparmiarsi un intervento armato e manovrare in vista della graduale restaurazione della dittatura burocratica - cosa che è finita per riuscire. Un'identica manovra sembrava impossibile in Ungheria dove il P.C. era distrutto e dove i consigli operai affermavano chiaramente la loro intenzione di rivendicare il potere e di esercitarlo.

12 Ciascuno, nella società attuale, ha avuto la possibilità, in scala ridotta, di osservare la spirale della degenerazione burocratica e dell'apatia nella vita delle organizzazioni politiche e sindacali.

13 E' vero che in Ungheria ci sono state richieste di libere elezioni al fine di designare un nuovo parlamento - e che queste, pare, avessero auto il sostegno dei consigli. Molto evidentemente quella era una comprensibile reazione ad uno stato di cose anteriori, quello della dittatura burocratica. la questione dei ruoli e dei poteri rispettivi di questo parlamento e dei consigli, se la Rivoluzione avesse avuto la possibilità di svilupparsi, resta naturalmente aperta. A mio avviso, lo sviluppo del potere e delle attività dei consigli sarebbe approdato o all'atrofia graduale del parlamento, o ad un confronto fra quest'ultimo e i consigli.

14 Cfr. il mio articolo «Socialisme ou Barbarie», in Socialisme ou Barbarie, n.1, marzo 1949, ripreso ora in La Société Bureaucratique, Vol. 1, ib., in particolare le pag. 164-173. Ugualmente «Le rolè de l'idéologie bolchevique dans la naissance de la bureaucratie», in S. ou B., n.35, gennaio 1964, ripreso ora in L'expérience du mouvement ouvrier, vol.2, ib., pp. 384-416. per quanto incredibile possa sembrare, Lenin e Trotzky vedevano nell'organizzazione del lavoro, la gestione della produzione, ecc., delle questioni puramente tecniche, che non avevano niente a che vedere, secondo loro, con la «natura del potere politico», che restava «proletario» perché era esercitato dal «partito del proletariato». A ciò fa eco il loro entusiasmo per la «razionalizzazione» capitalistica della produzione, il taylorismo, il lavoro in serie, ecc. Che questo atteggiamento corrisponda in effetti al pensiero di Marx stesso nei suoi più profondi recessi, è ciò che ho cercato di mostrare nel secondo degli articoli qui sopra citati e in numerosi altri testi.

15 Ho cercato di mostrare che organizzazione «razionale» è in effetti, intrinsecamente e inerentemente, ir-razionale, piena di contraddizioni e incoerente, in «Sur le contenu du socialisme, II», S. ou B., n.22, luglio 1957; «Sur le contenu du socialisme, III», citato in nota 2; «Le mouvement révolutionnaire sous le capitalisme moderne, II», S. ou B., n.32, aprile 1961. Non può esserci base «razionale» per una organizzazione gerarchico-burocratica nelle condizioni moderne (in confronto, ad esempio, del «mandarinato cinese»). «Sapere», «talento», «perizia» dovrebbero essere i criteri di selezione e di nomina, e non possono esserlo. Le «soluzioni» dei problemi che l'organizzazione affronta (azienda, amministrazione, partito, ecc.) sono determinati dai risultati che provengono dalla lotta per il potere alla quale sono costantemente impegnati gruppi burocratici rivali, o piuttosto cricche e clan, che sono, non fenomeni accidentali e anedottici, ma elementi centrali nel funzionamento del meccanismo burocratico. L'idea di una «tecnostruttura» in quanto tale è una mistificazione: è quello che la burocrazia vorrebbe che la gente credesse. Quelli che sono al vertice vi sono non quali esperti in ambito tecnico, ma quali esperti nell'arte di arrampicarsi lungo la scala burocratica. Nel corso della sua espansione, l'apparato burocratico è costretto a riprodurre al suo seno la divisione del lavoro che sempre più si impone all'insieme della società; per quello diventa separato, estraneo a se stesso e alla sostanza fattuale dei problemi. Ogni sintesi «razionale» diviene così impossibile. Tuttavia è necessario che vi sia una certa sintesi. Bisogna pure che alla fine le decisioni siano prese. E lo sono - nell'Ufficio ovale (o sotto il bulbo che gli corrisponde al Cremlino) tra dei nixon, degli ehrlichmans, degli haldemans e altri piccoli delinquenti dall'intelligenza infra-normale. E' quella l'apoteosi della «tecnostruttura», della «gestione scientifica», ecc. - nello stesso modo in cui le bustarelle della Lockhead sono l'apoteosi della «concorrenza perfettamente perfetta», dell'«ottimizzazione attraverso i meccanismi ed il libro mercato», ecc., cari ai professori di economia.

16 Cosa che i marxisti d'oggi sono incapaci di vedere, tanto che si ostinano a parlare di «produzione di merci» all'Ovest e di «socialismo», per quanto «degenerato» e «deformato» che sia, all'Est.

17 L'idea di una tecnica «neutra», come quella che la «razionalizzazione» capitalistica sia una razionalizzazione senza virgolette, è centrale, anche se più o meno nascosta, nel pensiero di Marx. Cfr. i testi citati più sopra nelle note 13 e 14.

18 Si giunge alle stesse conclusioni quando si considera la realtà della produzione, vale a dire il comportamento e le lotte dei lavoratori, in tutto il mondo industriale, all'Est come all'Ovest. Dappertutto l'«organizzazione» coercitiva e la «disciplina di lavoro», imposte dall'esterno, sono costantemente combattute dai lavoratori. Questa lotta non è, e non potrebbe essere, unicamente «negativa»; cioè non è solamente una «lotta contro lo sfruttamento», è necessariamente, e contemporaneamente, una lotta per una diversa organizzazione del lavoro. I lavoratori lottano contro lo sfruttamento nella produzione, vale a dire in quanto lavoratori, lavorando, e al fine di essere in grado di fare il proprio lavoro (e senza lotta essi perdono o il loro posto di lavoro o del denaro). Per fare ciò, devono lavorare la metà del tempo contro le regole - poiché lavorare secondo le regole (working to rule, sciopero bianco») è il mezzo migliore per provocare il caos immediato nella produzione (ancora un bell'indizio della «razionalità» della produzione capitalista) . Così i gruppi informali di lavoratori devono fin d'ora definire e applicare non una semplice, bensì una doppia «disciplina di lavoro»: una disciplina che mira simultaneamente a «battere il padrone» e a fornire una giusta giornata di lavoro (a fair day's work).

19 Ho discusso alcuni di questi problemi - a mio avviso i più «immediati» - in «Sur le contenu du socialisme, II», luglio 1957, già citato nella nota 14.


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